venerdì 22 luglio 2016

E' il tempo dei ponti, non quello dei muri


Il terrorismo, i corpi nel Mediterraneo, la Turchia, il delirio di Trump: perché i progressisti
devono muoversi. E perché in Italia serve una svolta. Con la nascita di un nuovo centrosinistra
A gennaio Barack Obama lascerà la Casa Bianca. Ci entrò nell’incredulità del mondo sull’onda dello slogan più bello della storia recente. “Sì, possiamo”. Anche se usato, ma è usato sicuro, converrebbe ripartire da lì.

Un giudizio che sembra profezia
“Guasto è il mondo” ha scritto Tony Judt qualche anno fa. A mettere in sequenza i corpi nel Mediterraneo, e Dacca e Nizza, il delirio di Trump o il golpe mancato ad Ankara quel giudizio sembra profezia. L’Europa con Brexit perde i pezzi frastornata
da eventi più grandi delle élite che la comandano. Ma se Bruxelles farfuglia la sinistra non brilla.
L’ultimo congresso del Pse ha avuto l’eco di un convegno del Rotary. Partiti affratellati parlano lingue diverse mentre movimenti nuovi scalano il consenso, ad Atene e Madrid. Il Pd è la prima forza di quel campo. Bene che l’assemblea di sabato sia rivolta a questo. Molto meglio se da lì facciamo uscire l’appello ai socialisti europei per riscrivere il perimetro della sinistra. In un mondo capovolto, quando se non ora una vera convenzione democratica e dei progressisti? Per disputare sullo zero virgola? No, per darsi quel manifesto di fondamentali che metta la sinistra in asse con la storia, che poi è la sola via per conquistare culture e coscienze.
Per alzare una barriera contro i fondamentalismi fatta non di mattoni ma di un progetto di vita e un’idea di umanità coerente con le nostre radici. Tra le rassicurazioni di chi governa e il catastrofismo di chi si oppone tocca alla sinistra, se ripensata, indicare la rotta per un’Europa che anche per sconfiggere il terrorismo non si salverà nella retorica del passato. Il tempo per rispondere si accorcia. Vienna voterà in ottobre. A seguire Olanda, Francia, Germania, forse noi. Venti mesi, poco meno, per capire cosa siamo diventati e quale avvenire abbiamo davanti. È il momento di muoversi.

Il destino di sinistra e Pd
Poi c’è l’Italia, un’economia che fatica, un’etica pubblica fragile. E il referendum, le città, il destino di sinistra e Pd. Tenere assieme tutto è complicato, ma ordinare qualche pensiero, questo sì, bisogna farlo. Ai ballottaggi la sconfitta è piovuta pesante. Non è solo quanto si è perso, ma come. Parte del nostro mondo ha votato “contro” di noi. Tanti per colpire governo, premier e Pd. Altri per archiviare un ciclo, come a Torino. Ora, una sola cosa è peggio della sconfitta. Rimuoverla. “Risultato frastagliato… cause locali…”. Così ci si fa male.
Da Nord a Sud quasi nessuno ha provato l’impulso a fermarsi per dire “ragazzi, abbiamo un problema, parliamone”. Ma questo modo è anticamera di un partito estinto. Corpo senz’anima come ha scritto Ezio Mauro il giorno dopo la fuga dalle urne. Possiamo addolcire l’amaro, ma il quadro d’insieme sconsola. Perdiamo iscritti, consensi, fiducia verso ciò che dovremmo rappresentare. Da due anni c’è una commissione che doveva produrre una riforma del partito. Se ne son perse le tracce. Ci sono parti del Paese dove il sogno dei Democratici è oggi l’incubo di potentati in guerra. Le stesse campagne elettorali si organizzano per correnti, e non da ieri. Ciascuno porta preferenze ai “suoi”. Mesi fa avevo suggerito un congresso tematico, senza primarie, dedicato a ripensare il partito: regole, principi, modi del confronto, della condivisione. Adesso il congresso incalza, ma costruire prima di allora uno spazio con al centro il tema darebbe il segno che della decadenza si è compresa almeno la gravità. Se lo si fa abbiamo dieci proposte pubblicate a primavera che mettiamo al servizio dell’impresa. Per inguaribile volontà di dare una mano, senza nulla chiedere in cambio. E sapendo che molti di questi problemi non nascono ora, originano da più lontano. Il punto è che quando tutto cambia, ognuno deve mettersi in discussione e coltivare a sua volta il desiderio di cambiare.

Un nuovo centrosinistra
La politica travolge verità che paiono di marmo. A oggi parte del voto di sinistra che non crede in noi si è volto a Grillo, parte all’astensione. Non so come tutto evolverà ma una cosa credo di sapere. Chi pensa che il “Palazzo d’I nve r n o”è espugnato e ha vinto un ceppo soltanto del riformismo, quello più prossimo al potere sì che la sinistra può portare soccorso ma senza mire, ecco chi dovesse coltivare questa attesa è bene rifletta. Perché delle due l’una. Se il Partito Democratico vivrà il prossimo referendum come passe partout per stabilizzare la maggioranza di governo che c’è emarginando la sinistra fuori e dentro il PD, banalmente morirà il PD che a quel punto sarà un’altra cosa.
L’alternativa è riconoscere che in due anni il partito pigliatutto o “della Nazion e”è sbandato e ha perso voti. Una classe dirigente consapevole ne prenderebbe atto e imboccherebbe un’altra strada. A cominciare da un nuovo centrosinistra. Perché qualcosa vorrà dire che si è vinto dove quel perimetro ha retto, da Milano a Cagliari passando per Bologna.
Lo dico anche alla sinistra fuori da noi che non può fondare il suo traguardo sulla distruzione del più grande partito del proprio campo. Come altri penso che la sinistra deve vivere anche – non solo, ma anche – dentro la forza più grande e lavoro per questo. Ma in tutta lealtà dico che senza investire su una nuova coalizione noi perderemo la sfida per il governo dell’Italia. Coalizione non come somma di sigle, ma patto con quella società non piegata e traversata da movimenti, cultura, persone alla ricerca di una rappresentanza possibile.
Per quanto mi riguarda questa è la discriminante del congresso. La risposta alla crisi di economia, idealità, istituzioni. Solo così quell’appuntamento è una chance. Ridurlo a una conta sul “Capo” sarebbe uno sciupio. Vedo locomotori che partono e altri in attesa. Penso serva qualcosa di più. Anche regole nuove, quelle sì eretiche, capaci di ricondurre un popolo a discutere di contenuti, principi, idee, non di un nome buono per uno scatto di carriera.

La svolta necessaria
Prima del partito, si dice, viene il Paese. Giusto. Il punto è che il Paese stenta. Colpa di riforme tutte brillanti ma vendute male? Non è così. Abbiamo perso voti anche per contenuti e messaggi sbagliati. Se diciamo che tutto era un bengodi, quelli ce li giochiamo per sempre. La realtà è severa. Si è puntato su un cavallo zoppo: flessibilità in più nel lavoro, contrazione espansiva con meno tasse e spese, bonus e sussidi per rilanciare i consumi. Questo racconto ha gonfiato attese che la vita di troppi ha presto bucato. Non discuto le buone pratiche. Il “D op o di noi”e un “Reddito di inclusione”, Migration compact o le strigliate sulla crescita: su questo e altro dico bene così e andiamo avanti. Ma è la legge dei numeri a smentire l’impianto di politica economica seguito fin qui. Serve correggere rotta. Bisogna farlo almeno se crediamo che dopo la grande recessione vanno ripensati sviluppo, investimenti, diritti. Partendo dal vero dramma che ha il nome di questione sociale: 4 milioni e mezzo di poveri. Servono sette miliardi perché il 91 per cento delle famiglie esca da quella soglia. Ascolto i peana del jobs act. Ma abbiamo chiuso il 2015 col picco di precarietà. Penso a decine di milioni di voucher senza controlli. Penso ai ritardi su politiche attive e centri per l’impiego. Le proposte non mancano. Un assegno previdenziale di base per ogni giovane a cui sommare i contributi del futuro, sola via per una vecchiaia degna. Investimenti per ricerca e infrastrutture, e piccole opere da rilanciare. E poi milioni che non si curano bene o non si curano più da proteggere con fondi sicuri. L’analisi migliore della sconfitta sta nel cambiare verso. Una svolta: per quanto sfruttato non trovo termine migliore. Serve una rottura di messaggi e priorità per ritrovare sintonia con la parte nostra. E questo si fa con un vero e proprio tagliando per un governo che imbarca Verdini fischiettando e mostra in ambiti vari una fragilità di profilo. Svolta vuol dire questo: correggere impianto, cultura, classi dirigenti.

Si cambi l’Italicum
Sullo sfondo c’è il referendum destinato a cambiare la Costituzione. Ragioni politiche per votare Sì ci sono a partire dal superamento del bicameralismo che c’è. Ragioni di merito per votare No ci sono pure, e non poche. Solo la politica non giustifica il Sì. Solo il merito non giustifica il No. Per trovare la risposta giusta i due piani vanno mescolati. Parto dal merito. La riforma è scritta male, in alcune parti è confusa. Bene che la fiducia sia votata solo dalla Camera, su questo l’accordo è pieno. Ma chi parla di semplificazione del processo legislativo non ha letto bene. Da 2 procedimenti attuali si transita a 10, e a descriverli non basterebbe la pagina. Il Senato rappresenterà le istituzioni territoriali, ma se questo fosse i senatori andrebbero eletti dagli esecutivi e con vincolo di mandato. Se, come accadrà, vareranno leggi costituzionali, eleggeranno giudici della Corte e parecchio altro ancora, andrebbero eletti direttamente, o da una vasta platea come in Francia, e senza vincolo di mandato. Così è un ibrido, anzi un pasticcio.
Quanto al nesso con l’Italicum. Il punto, almeno per me, non sono le preferenze e neppure quel premio di coalizione che pure ho chiesto da mesi, ma che ora scatenerebbe una campagna 5Stelle assai velenosa (modificate la legge per paura).
Il punto è che l’Italicum cambia la forma di governo che scivola dal regime parlamentare a uno presidenziale, e senza i contrappesi dovuti. Quando si obbligano i partiti che “si candidano a governare” a depositare assieme al programma “nome e cognome della persona… indicata come capo della forza politica” questo succede. Che il futuro premier di fatto sarà “eletto” dal popolo. Accadrà con un sistema iper maggioritario destinato a produrre una miscela indigeribile.
Quindi non è solo un diritto, ma un dovere chiedere che quella legge venga modificata. Poi si discuta nel merito. Benissimo tornare al Mattarellum con le modifiche necessarie, esistono anche altri modelli e proposte in via di raffronto. E allora dico apriamo subito, prima dell’autunno, la discussione su una nuova legge che raccolga in Parlamento una maggioranza larga. Per quanto mi riguarda cercando una condivisione con le forze del centrosinistra che abbiamo in mente. E agganciamo quella modifica al giudizio referendario. Perché le ragioni politiche a favore del Sì sono evitare l’ennesimo fallimento dopo i troppi consumati, rispettare l’impegno delle Camere all’atto della rielezione di Napolitano e cercare di non spaccare il primo partito del Paese (per chi ne abbia a cuore le sorti).
Però, e lo dico al segretario e premier, queste ragioni da sole non giustificano un Sì a quella combinazione tra nuova Carta e pessima legge elettorale. Si dica subito e con chiarezza quale disciplina eleggerà i futuri senatori. Si chiarisca come dare corso alle norme sui referendum, su come accorpare le regioni superando anche anacronistiche specialità. Si montino i cardini dei futuri regolamenti parlamentari anche a tutela delle opposizioni. Ma in primis si cambi l’Italicum o la scelta nell’urna non potrà che opporsi a un modello nell’insieme gravemente sbagliato.

Non spaccare il Paese
So che molti, a sinistra e non solo, chiedono una posizione netta e nell’immediato. Insomma, “cos’è‘sto cincischiare senza dire Sì e neanche No?”. Provo a spiegarla la ragione di questo limbo. E se ci scappa una punta più enfatica, non è retorica ma convinzione. Allora, l’intreccio della recessione peggiore della nostra vita col crollo di fiducia verso istituzioni e partiti espone l’Italia a una crepa della democrazia. Non per forza un balzo nell’autoritarismo. Più semplicemente il pericolo è l’impraticabilità di un altro e nuovo patto civile e sociale. Il solo che può tirarci fuori da guasti e ritardi cumulati nel tempo. Qui vive anche il limite più grande di Matteo Renzi. L’idea che l’Italia avesse solo bisogno di un leader capace di cantarle ad ascari e legulei. Il nodo è che la cultura politica e di governo che ha sorretto questa prassi si è fondata sulla frattura del Paese, del suo tessuto profondo. Ha contrapposto generazioni nel nome di una rottamazione praticata a intermittenza, secondo comfort. Ha pensato, e male, di liberare energie contrapponendo i sindacati al resto.
Lo ripeto, penso che Renzi alle ultime primarie non abbia usurpato alcunché e se ha vinto è accaduto per una spinta forte a togliere tappi e sbloccare conservazioni e chiusure. Il punto è che arrivato al potere non lo ha fatto preferendo fedeltà e trasformismi. E oggi quella che per tanti era stata una speranza sincera, proiettata nel 40 per cento alle europee, si è mutata in delusione. Tutto questo pesa, e molto, soprattutto perché una crisi del genere di quella che ci ha investito non la risolvi dividendo la società. Ecco perché siamo tutti a rischio. E perché, anche pagando un prezzo, sento che dobbiamo tentare noi, fino all’ultimo, di non spaccare il Paese, annodando il filo di un campo aperto del centrosinistra. Sarò malato di un ottimismo incorreggibile ma fino all’ultimo continuerò a dire, niente steccati. Questo è il tempo dei ponti.

Gianni Cuperlo - L'Unità - 20 Luglio 2016

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